Nel caso di Molfy parto da una difficoltà finora non sperimentata, ossia quella di non conoscere in alcun modo la persona in questione, “dovendola leggere” solo attraverso le sue letture.
La fotografia che ho scelto, ha alla base proprio questa misteriosità, che diviene raffinatezza nel momento in cui si incrociano le sue letture. Un percorso molto femminile tracciato com’è in modo affettivo. C’è in qualche modo un collegamento con la tradizione della lettura, ma anche la spinta verso la scoperta della novità e della sperimentazione personale. La scelta inoltre della lingua tedesca (che conosco per studi) tradisce l’ordine mentale (la grammatica tedesca è quasi matematica nella costruzione della frase) ed in qualche misura l’apertura verso un mondo nel quale le parole si costruiscono di volta in volta in modo collegato ai sentimenti (non a caso il romanticismo nasce proprio in lingua tedesca… Ho amato Novalis in modo estremo, per capirci). Se dovessi definire Molfy solo dalle sue letture, mi viene in mente proprio lo scatto che vi ho presentato. Eleganza, raffinatezza, signorilità ma anche ordine, sentimento. In una sola parola: estrema femminilità. Sono curioso di sapere cosa hanno scritto i miei amati colleghi: Avvocatolo e Ysingrinus. E voi?
Quella che ho coi libri è un’intensa, lunghissima storia d’amore. Dacché io mi ricordi, ne ho sempre avuti intorno e, da quando ho imparato a leggere, non ho più smesso.
Tra le letture d’infanzia rammento con particolare affetto Pollyanna, da cui devo aver preso il gioioso ottimismo, e “Pattini d’argento” di Mary Mapes Dodge, ma sullo scaffale della memoria in bella vista ci sono pure l’ “Isola dei delfini blu” di O’Dell Scott e “Cuore” di De Amicis.
Da ragazzina ho avuto un debole per A.J.Cronin, ma non disdegnavo nemmeno E.A.Poe e A.C.Doyle (la doppia iniziale puntata evidentemente esercitava un certo fascino su di me).
Alcuni libri sono legati indissolubilmente a nomi e volti di insegnanti. Quella di Lettere di terza media, ad esempio, non solo mi suggerì la “Collina dei conigli” di Richard Adams, ma me ne procurò lei stessa una copia in formato economico, che mi consegnò ancora incellophanata: l’aveva acquistata appositamente per me! Al liceo il prof. di filosofia mi fece leggere “Dal mondo del pressappoco all’Universo della precisione” di Alexandre Koyré, proponendomi di costruirci una lezione per l’intera classe. Inutile dire che ho sempre amato la filosofia. E forse anche un po’ il professore, di cui del resto eravamo tutte più o meno dichiaratamente innamorate…
Da adolescente in cerca di indipendenza di pensiero, ho letteralmente spiccato il volo insieme al “Gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach, mentre per il “Piccolo Principe” devo appellarmi ai diritti del lettore di Daniel Pennac, non avendolo mai finito. Proprio non ci sono riuscita.
Al contrario, ci sono libri che ho preso ripetutamente in mano, come “Il nome della rosa”, di Umberto Eco, che ho letto tre volte, apprezzandone via via i diversi piani di lettura: ora la trama del giallo, ora lo sfondo filosofico, ora l’impianto teologico. (Ho visto anche il film, ma più per Sean Connery che per la trasposizione cinematografica!).
Ogni libro è un’avventura e una scoperta!
I bellissimi diari di viaggio “Patagonia Express” di Sepúlveda e “La corsa del levriero” di Alex Roggero mi hanno portato ad esplorare le Americhe senza problemi di jet lag.
Con “La cruna nell’ago” e “Codice Rebecca” di Ken Follett mi sono catapultata nello spietato mondo dello spionaggio, spingendomi anche a divagazioni bondiane, immaginando che un affascinante 007 rischiasse di prendersi una pallottola in mia presenza, mentre bevevo un Vodka Martini (agitato, non mescolato) in sua compagnia.
Recentemente, “Sei biblioteche” del serbo Zoran Živcović mi ha condotta in un surreale inferno postdantesco dove la pena per chi non si dà la pena di leggere in vita, è leggere per la vita eterna.
Non è il mio caso, chiaramente….
Leggo un po’ di tutto, persino i bugiardini dentro le scatole dei farmaci, salvo poi restare atterrita dagli effetti indesiderati, per cui finisco sempre col buttare i medicinali e tenermi il dolore.
Leggo abbastanza: in media una quarantina di titoli l’anno.
Amo i libri, il frusciare delle pagine, l’odore della carta, il risvolto di copertina…
È evidente però che a un certo punto ho dovuto smettere di acquistarne, essenzialmente per due motivi. Uno squisitamente economico, l’altro… strutturale! Mio marito – ingegnere – direbbe che i solai non sono calcolati per reggere il peso delle mie ambizioni culturali (leggi: librerie sovraccariche!) Così, per evitare crolli nel bilancio familiare e nella mia umile dimora, ho preso a frequentare assiduamente la Biblioteca Civica, dove, conoscendomi, derogano spesso al limite di prestito di tre libri per volta.
Lo ammetto: la mia lettura a volte è un po’ compulsiva. Sono una lettrice avida. Avida di emozioni. Una storia deve catturarmi, prendermi e farmi sua. Non mi importa tanto ricordarmela dopo averla letta, quanto viverla mentre la leggo, sentirla intensamente quasi a raggiungere qualcosa di simile a un orgasmo mentale…
Per darmi una calmata e complicarmi un po’ la vita (così almeno riesco a far durare un libro per più di una settimana), ho cominciato a leggere testi in Tedesco, lingua che ho ripreso recentemente a studiare e che amo quasi quanto il nostro meraviglioso Italiano.
Ho iniziato dai classici “Leiden des jungen Werthers” (i dolori del giovane Werther) di J.W. von Goethe, sono passata a E.T.A.Hoffmann (ancora iniziali puntate!!!) per approdare infine ad autori contemporanei.
Spassosissima e capace di farmi sorridere nei giorni un po’ grigi è la scrittrice Kerstin Gier, una sorta di versione germanica di Bridget Jones e i suoi diari (in Italia è uscita con “L’uomo che vorrei” per Corbaccio). Un titolo su tutti: “Männer und andere Katastrophen” (uomini e altre catastrofi).
Ora sono alle prese con l’intrigante “L’ultimo Abele”, del Nostro.
Ed è stato amore a prima riga.